Uno studente ferisce la professoressa


Entro in merito a quanto è accaduto  nella scuola di Santa Maria a Vico: uno studente ferisce con un coltello la propria insegnante. E' sicuramente un episodio molto grave che ci fa comprendere la reale difficoltà in cui tanti insegnanti sono costretti a vivere oggi la propria professione.
Purtroppo la “buona scuola” nel suo tentativo molto debole di salvare l’Istituzione scolastica ha dimenticato  un aspetto che Armida Filippelli nel suo articolo Perché esplode la violenza in classe su la Repubblica  del 2 febbraio 2018 ha bene evidenziato: il bisogno di relazione.
Dove si insegna questo bene essenziale, soprattutto nella vita dei giovani? Quasi da nessuna parte. Si contano sulle dita le scuole in Italia che prima delle competenze pongono  al primo posto la comunicazione non violenta e la formazione al bene relazionale.
Come sottolinea la Filippelli, i ragazzi difficile sono quelli che più degli altri cercano questo bene in famiglia e nella Scuola con i docenti: “Forse la scuola deve correggere il tiro, e parlare meno di competenze e di aziende culturali e più di educazione ai sentimenti.”
Purtroppo oggi, molto spesso, prevale proprio la visione della Scuola come “azienda” e le prove INVALSI hanno riportato alla grande  l’espetto meritocratico al centro della vita scolastica, dimenticando che la Scuola, e in particolar modo quella dell’obbligo, è una Scuola per tutti e a misura di ciascuno.
Ho insegnato in vari istituti della Campania ed ho vissuto  questo mio impegno  sapendo che il ragazzo  era “persona” con un mondo interiore complesso:  dovevo quindi aprirmi a quel mondo  se volevo connettermi con lui e  con lui vivere  l’esperienza scolastica.
Mi trovavo in una seconda  classe di un Istituto Superiore e  mi ero accorto che molti del miei allievi usavano stupefacenti. Era evidente da tanti sintomi. Parlando con i colleghi percepii che la realtà della tossicodipendenza era nell’intero Istituto molto diffusa, per cui sentii il dovere di parlarne al Dirigente, proponendo un Collegio dei Docenti sul problema. Mi trovai davanti a un muro: “Non possiamo entrare in questo tipo di problematiche, non abbiamo neanche la figura dello psicologo…Lei continui a fare il suo dovere come insegnante di matematica….”. Fu questo presso a poco  il discorso del Dirigente.
Sono risuonate forti in, in questi giorni in cui ricordavamo la Shoah, le parole della giornalista Anniek Cojwean che raccontava  di un preside sopravvissuto ai campi di concentramento, il quale,  all’inizio dell’anno scolastico, era solito dire ai suoi insegnanti: “I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe vedere, camere a gas costruite da ingegneri molto istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi bruciati da diplomati da scuole superiori e università…Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.”
Sì, il linguaggio dei sentimenti, dei bisogni vitali deve entrare nella Scuola per rendere i nostri allievi più umani. E’ indispensabile, come afferma lo psicologo Andrea P. Cavaleri,  introdurre  come momento significativo e fondante dell’esperienza scolastica, nelle scuole di ogni ordine e grado, l’insegnamento del bene relazionale connesso alla comunicazione non violenta.
La Montessori e don Milani ci hanno lasciato tracce validissime in tal senso; avevano abolito voti e registri e privilegiato la scuola come comunità di uguali nella diversità. A Barbiana se due ragazzi restavano “indietro”, ci si fermava e si lavorava con questi due per condurli  allo stesso livello degli altri.
Penso che la nostra Scuola debba recuperare  molto  dalla lezione di questi due “grandi”, diversamente essa  resterà un’impalcatura senz’anima, un’azienda che si sbriciolerà nella violenza  e diventerà terra di scontro frontale. Come pure la famiglia deve trovare un rapporto più collaborativo con i docenti.
Purtroppo l’ho sperimentato, in piccolo, in una scuola media di una periferia napoletana dove  trovai, nella prima classe, ragazzetti di 11 anni e giovani corpulenti e tatuati di 14 anni che avanzavano in classe con atteggiamenti aggressivi. I genitori per buna parte assenti e lontani dall'a Scuola. Affrontai  questo aspetto nel Consiglio di classe e la risposta da parte della maggioranza dei Docenti fu chiara e incontrovertibile: “Siamo stati costretti a bocciarli più volte…mica potevamo promuovere dei delinquenti.” Nel confronto  acceso, anche quella volta fui  messo in minoranza e la Scuola continuò a bocciare i delinquenti. E  neanche quando stigmatizzai la violenza che questi ragazzi, con le loro bande,  esercitavano sull’Istituto, si posero in discussione. Quasi ogni giorno, infatti, una classe veniva presa di notte a sassate e noi dovevamo raccogliere sassi e cocci e denunciare l’aggressione ai carabinieri.
Mi si perdoni la parola: sono convinto  più che mai, che occorre una vera rivoluzione nella Scuola, che parta però dal basso, dalle famiglie, dagli studenti, dai docenti; non una “guerra”  ma l’avvio di momenti aggreganti, in un confronto serrato e rispettoso fra queste tre compnenti, intorno al tema della violenza, dei rapporti sociali, del merito scolastico,  e del disagio esistenziale, per giungere insieme  a d una proposta nuova da offrire  alla nostra Scuola italiana.

Pasquale Lubrano Lavadera  


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